Il 6 agosto del 1945 alle 8.10 del mattino, le condizione meteo sono buone sopra Hiroshima.
‘Little boy’, la prima bomba atomica mai usata in guerra, viene sganciata dal B-29 americano Enola Gay sull’obiettivo sbagliato, distruggendo la città giapponese e causando indirettamente la morte di qualcosa come 200.000 persone. Quattordici anni dopo uno dei piu grandi pensatori del novecento, il filosofo tedesco Günther (Stern) Anders, scrive ad un internato dell’ospedale psichiatrico di Waco, negli Stati Uniti.
Caro signor Eatherly,
Lei non conosce chi scrive queste righe. Mentre Lei è noto a noi, ai miei amici e a me. Il modo in cui Lei verrà (o non verrà) a capo della Sua sventura, è seguito da tutti noi (che si viva a New York, a Tokyo o a Vienna) con il cuore in sospeso. E non per curiosità, o perché il Suo caso ci interessi dal punto di vista medico o psicologico. Non siamo medici né psicologi. Ma perché ci sforziamo, con ansia e sollecitudine, di venire a capo dei problemi morali che, oggi, si pongono di fronte a tutti noi.
La tecnicizzazione dell’esistenza: il fatto che, indirettamente e senza saperlo, come le rotelle di una macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti, e che, se ne prevedessimo gli effetti, non potremmo approvare – questo fatto ha trasformato la situazione morale di tutti noi.
Claude Eatherly era il pilota dell’aeronautica militare incaricato di controllare le condizioni di visibilità e dare il via al bombardiere di Hiroshima. Noi lo troviamo in scena in pigiama in stato confusionale. Dopo la strage di Hiroshima infatti, il ventisettenne texano lascia l’aeronautica e inizia a soffrire di sensi di colpa e squilibri mentali, arrivando a compiere atti criminali e autolesionistici. Leggendo nelle sue reazioni il tentativo di punirsi, rivendicando una responsabilità che lo Stato non gli vuole riconoscere (dal momento che squalificherebbe il suo stesso operato), il filosofo incalza il pilota in un lungo carteggio che diviene anche una relazione di amicizia.
We are all in the same boat
Nelle condizioni di Claude sarebbe normale impazzire perché una strage di massa va al di là della nostra capacità di elaborazione. E questa ‘discrepanza’ tra ciò che è diventato tecnicamente possibile e ciò che la mente umana è in grado di pensare non può non scuotere nel profondo chi prova a scrutarla invece di operare una rimozione. Tutti siamo chiamati a farci i conti.
Immaginare il mondo senza l’uomo è possibile? Che spettacolo sarebbe? Spettacolo viene dal latino spectare (guardare) ed implica perciò qualcuno che guarda. Un mondo dopo la fine dell’umanità, sarebbe un mondo senza storia. Non è uno spettacolo per noi e provare a pensarlo dà le vertigini. Ma ci ricorda anche quanto tutto sia relativo e transitorio, compreso questo breve e disturbante Antropocene. L’umanità sarebbe potuta finire in qualsiasi momento per un meteorite alla Lars Von Trier, ma il novecento con i suoi campi di sterminio e le bombe atomiche, ci ha detto che possiamo benissimo farcela da soli. E il ventunesimo secolo con la crisi climatica conferma le previsioni.
Pile di libri che vengono spostati di continuo in una scena vuota, rimandano alla fatica del pensiero che inutilmente cerca di sistemare i concetti, strutturarli in una nuova filosofia etica che fa acqua da tutte le parti. Lo stesso Anders, mosso dalle migliori intenzioni di salvare l’umanità dalla tecnicizzazione dell’esistenza, dallo sfruttamento in base ai principi delle cose, finisce col trattare il povero Claude come un oggetto, un simbolo, riducendo la sua complessità umana alla funzione di messaggero morale. In scena lo vediamo scuoterlo, legarlo e torturarlo come fosse la sua marionetta che ha perso il filo. L’effetto è tragicomico, come nel teatro dell’assurdo. La quotidianità viene scomposta e si fa surreale, alienante, col sottofondo di una frullatrice e di un telefono che squilla.
Una poetica teatrale basata sull’assenza e la caducità.
Cade più volte Claude, ad ogni tentativo di raccontare la sua storia per farne una lezione universale, così come cade la mela-icona dello spettacolo e feticcio in mano agli spettatori che sono venuti a prendere parte alla “riflessione teatrale”. Nelle azioni degli attori, la mela sembra mutare di significato: da peccato originale, senso di colpa a sete di conoscenza, fino ad una natura morta come memento mori. E` la mela della scienza newtoniana che vuole invertire di nuovo la rotta: nei suoi comandamenti dell’era atomica Anders ci chiama ad una rivoluzione copernicana dell’etica.
Il tuo primo pensiero dopo il risveglio sia: “Atomo”
Poiché non devi cominciare un solo giorno nell’illusione che quello che ti circonda sia un mondo stabile. Quello che ti circonda è qualcosa che domani potrebbe essere già semplicemente “stato”; e noi, tu e io e tutti i nostri contemporanei, siamo piú “caduchi” di tutti quelli che finora sono stati considerati tali. Poiché la nostra caducità non significa solo il nostro essere “mortali”; e neppure che ciascuno di noi può essere ucciso. Questo era vero anche in passato. Ma significa che possiamo essere uccisi in blocco, che possiamo essere uccisi come “umanità”. (…) E questo sia il tuo secondo pensiero dopo il risveglio:
La possibilità dell’apocalisse è opera nostra. Ma noi non sappiamo quello che facciamo
Se siamo tutti Hibakusha, non possiamo più delegare alle istitutizioni o ai partiti una responsabilità etica che va cercata solo nelle nostre coscienze, per guidarci ad agire, resistere e ribellarci, scrive Anders, e sembra uno slogan di Exinction Rebellion.
E il tuo pensiero successivo dopo il risveglio sia:
Non esser vile, abbi il coraggio di aver paura!
Perché ci troviamo di fronte a una catastrofe, direbbe Greta, e sarebbe folle restare calmi quando la nostra casa è in fiamme. Anders ci avvisa che d’ora in poi l’umanità dovrà vivere sotto l’ombra minacciosa del mostro. Il pericolo apocalittico non si lascia eliminare una volta per tutte, con un atto solo, ma solo con una serie indefinita di atti quotidiani. Cambiare e ridurre i consumi. Scendere in piazza contro il decreto sicurezza. Combattere fake news e hate speech. Può bastare? Se la tecnica va più veloce della nostra immaginazione, e l’Esserci è diventato un Esserci-ancora-per-poco, ha ancora senso parlare di ontologia e di etica? Ce la facciamo a reggere una verità tanto scomoda, a pensarla? E ad agire senza contraddirci? Al vacillare della ragione gli attori si ammutoliscono e sono le loro voci registrate a sovrapporsi. Bisbigli confusi e agitati che non portano a niente ma insinuano un dubbio aperto nell’atmosfera.
Little boy è uno spettacolo asciutto e a tratti brillante che riesce nel suo intento di dare voce e corpo al pensiero etico-politico di Anders e di condividere con il pubblico una mela rossa di aporia e inquietudine. Il finale che si “spettacolarizza” ci lascia con questo divertito magone. Per dirla con Mattia Torre, se l’uomo rifiuta la presa di coscienza, il mondo del futuro sarà sempre più un paese di canzonette mentre fuori c’è la morte.
Fotografie di Monia Pavoni
Articolo di Chiara Canestrini
* * *
LITTLE BOY
Corrispondenza tra il filosofo Günther Anders e Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima
Adattamento e regia Marco Di Costanzo
con Erik Haglund, Stefano Parigi, Monica Santoro
suono Andrea Pistolesi
scene e luci Beatrice Ficalbi
costumi Laura Dondoli
organizzazione Carolina Pezzini
produzione Teatro dell’Elce
residenze artistiche FLOW – Teatro Cantiere Florida, Fondazione Fabbrica Europa – PARC Performing Arts Research Centre, Le Murate Progetti Arte Contemporanea, AttoDue, Archètipo Associazione Culturale con il sostegno di Regione Toscana, Fondazione CR Firenze, Armunia – residenze artistiche Castiglioncello