C’era una volta un paese
che finì in un campo, che finì in un quartiere. Welcome to Aida si legge all’ingresso del refugee camp nato a ridosso del muro di separazione (siamo a Betlemme durante la nakba). Quella che si credeva una soluzione temporanea è diventata, 70 anni dopo, un quartiere difettoso. E` passato tanto tempo ma c’è ancora chi ricorda in prima persona -come Nonna Rueda, che mi ospita in casa sua stanotte.
Le finestre sono sbarrate per evitare i proiettili
ma quasi me ne scordo quando siamo nella corte interna e l’aroma di cardamomo sale dalle tazzine di caffè. C’è una gran pace qui. Le nipotine mi sorridono curiose: Do you like our camp? E` difficile rispondere, e vado con un sì per farle contente.
La stessa difficoltà si presenta alla domanda ti è piaciuta la Palestina? Mi sembra di tradirla a farne una recensione positiva. L’unico momento in cui è meglio “fare la turista” è all’aeroporto di Tel Aviv (se il passaporto vi ci fa arrivare -altrimenti si passa dal confine giordano, sempre sotto il controllo israeliano). In ogni caso, superata la prima barriera ce ne saranno delle altre.
Più che terra ferma, sembra un arcipelago.
L’attuale Palestina è divisa e frammentata: tra Gaza e West Bank, in aree (A, B e C), dal muro e al suo interno: insediamento dopo insediamento, la Cisgiordania ha continuato a perdere terreno. Vedo molte colonie israeliane durante il mio viaggio. E per ogni settlement illegale, un pò di esercito di stato a rendere il clima ancora più rilassato.
Un mare di muri
E controlli. Se non fossero atroci, sarebbero buffi i checkpoint. Per il governo israeliano non c’è nemmeno uno “Stato” da attraversare: Territori li chiamano, segnalandone il pericolo con grandi cartelli rossi. Si potrebbe scrivere una Fenomenologia del checkpoint dopo aver visitato la Palestina. Quello di Kalandia, tra Gerusalemme e Ramallah, sembra progettato allo scopo di punirti e metterti a disagio. Quando l’ho attraversato a piedi non ho avuto il coraggio di tirar fuori la camera, volevo solo che mi lasciassero rientrare senza domande. Ma ci sono anche checkpoint privilegiati, come quello riservato ai diplomatici, che ho attraversato in auto come niente fosse. E poi ci sono i flying check point. Era notte e tornavamo da Jenin dopo un concerto quando dei militari hanno piazzato due luci di segnalazione e un buca-ruote in mezzo alla carreggiata, consentendo l’accesso solo alle targhe israeliane. Quel posto di blocco in mezzo al nulla ci ha preso più di un’ora di deviazione. Perché? E chi lo sa.
Barriere per farci sentire piccoli e impotenti.
La terza generazione di bimbi e bimbe gioca nelle strade di Aida. C’è anche chi si offre di farmi da guida. Molti indossano maglie del campo, con slogan e bandiere palestinesi. La memoria viene tramandata come un atto di resistenza. Si sente subito un forte senso di comunità… ma anche un tremendo odore di immondizia. Il campo è sotto tutela dell’ONU che però, dicono qua, fa troppo poco. Neanche la città se ne occupa perché ufficialmente non è un quartiere, quindi manca dei servizi necessari, come un efficiente smaltimento dei rifiuti. Spesso sono a corto di acqua. Ma il problema più grave resta l’irruzione dell’esercito (dal muro che chiude Aida su due lati).
Una foto mi ricorda il pugno allo stomaco
avvertito mentre ascoltavo le storie sul campo, proprio di fianco alla porta d’ingresso. Alla mia sinistra l’ultimo ragazzino rimasto ucciso. Alla mia destra, in secondo piano, il muro che ricorda tutti i nomi e le date dei bambini morti per mano dell’esercito israeliano. Sul fondo l’arco d’ingresso del campo con la grande chiave che simboleggia il diritto al ritorno. Dietro la camera c’è la porta della barriera di separazione: è da lì che entrano i soldati, perciò è in questa zona che avvengono gli scontri (tanto che le case in prossimità sono state abbandonate). Spesso i ragazzini sono i primi a correre incontro agli invasori del loro quartiere, mentre dagli altoparlanti si può sentire qualcosa come:
Siamo sul tetto del centro culturale Lajee
R mi racconta delle frequenti incursioni, delle “detenzioni amministrative”, degli scontri, dei cecchini e delle morti. Forse ho le vertigini. Mi sale l’ansia all’idea di passare lì la notte. Mi sento impotente, insicura, in trappola. Loro convivono con queste sensazioni da sempre. R mi conosce e sa quando smettere di raccontare, abbiamo fatto abbastanza consapevolezza per oggi. Rientriamo in casa e il calore che ci avvolge mi fa subito ritrovare il sorriso.
Le famiglie palestinesi sono numerose e accoglienti. Le abitazioni tradizionali hanno una zona comune al centro, ed è qui che ci sediamo attorno al tavolo per intingere il pane arabo in tutti i piatti e le scodelle. Non l’avevo mai assaggiato un hummus così buono. E` strano: come ci si possa sentire al riparo in un mondo costantemente minacciato.
C’è un orto urbano sul tetto dal quale osservo il campo da calcio. Stasera fanno una festa nella scuola. Il laboratorio di arti e media ospita un reportage fotografico su Aida e i suoi dintorni. Sono molte le attività community based che si prendono cura del quartiere e dei suoi abitanti, dai corsi di lingua allo sport, dal giardinaggio alla produzione culturale, ai campi estivi per ragazzi. Street artist da tutto il mondo sono venuti a dipingere i muri di Aida, ma non serve divagare sui nomi internazionali: ci sono artisti eccezionali da queste parti (penso in particolare al teatro e al circo). Quella palestinese non è mai arte per l’arte, ma è sempre ricca di realtà e di carica rivoluzionaria. Un’arte vitale, militante.
Sei sicura di aver fatto da sola il tuo bagaglio?
Una volta superata la serie di controlli per il volo di ritorno, finalmente mi rilasso e mi scoppia da ridere. Ero sicura di non avere esplosivi nello zaino ma non potevo escludere l’eventualità di un baby terrorista nella pancia. Chiudo gli occhi un attimo dopo il decollo. Torno a galleggiare sulle acque del Mar Morto, al buio di uno spicchio di luna crescente. Il punto più basso sulla terra, eppure mai stata così leggera. Forse mi addormento riascoltando…
A R e alla sua famiglia, che è diventata anche la mia. اﺮﻜﺷ
Chiara