By Claire On

In ARTE, ARTICOLI

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La tradizione occidentale ha pensato a lungo il corpo come prigione/tomba dell’anima. E la prigione del corpo? Qui è di quella che si parla -ma poi non è la stessa? Che significa il carcere per il corpo, se partiamo da una prospettiva complessa (se rifiutiamo innanzitutto il dualismo mente-corpo)?

Cominciamo da qui, dall’idea che non c’è un corpovuoto-hardware né una menteastratta-software, e cerchiamo di lasciar emergere un’unica realtà:

l’organismoviventenelsuoambiente.

Banalizziamo: io sono anche il mio mal di denti. Il disordine di casa mia influenza il mio stato d’animo. Se per camminare uso un bastone, il mondo per me comincia all’estremità del bastone. Generalizziamo: Da dove vengono i primi concetti? Percezione, sensazione… comincia tutto con un corpo (sistema nervoso etc) che interagisce con un ambiente – tutt’altro che inerte -.

Un pò di tempo fa sono andata al cinema a vedere Hunger, l’opera prima di Steve McQueen (non quello Steve McQueen, un altro). Mi è piaciuto ASSAI, ma niente recensioni… lo prendo come spunto. In questo film ci sono corpi dentro le prigioni. L’avevo detto che facevo un post sulle prigioni.

Cosa c’è dentro il carcere di Maze? Non solo corpi, ma idee, non solo pensieri ma escrementi e sangue. C’è l’eredita della body art, delleperformance più dure, di quelle che ti risvegliano a schiaffi dal sonno percettivo – avete presente Marina Abramovic? O l’azionismo viennese o Gina Pane o…? Le coperte dei detenuti mi facevano pensare persino al feltro di Beuys.

Ma dentro al carcere di Steve Mc Queen, come in ogni carcere che si rispetti, c’è anche Foucault, c’è il corpo come strumento del potere, strumento da piegare al potere, il corpo bersaglio, passivo. E c’è Il corpo come strumento di lotta e resistenza al potere, il corpo arma, attivo. Un dispositivo ben più complesso e raffinato di qualunque macchina da presa.

Io mi sentivo angosciata e oppressa, tutt’a un tratto ero a carne scoperta, dopo una giornata da mummia, e il cinema era diventato un pò il mio carcere. Empatia. Recenti studi neuroscientifici sembrano dimostrare che anche la percezione “indiretta” di una sensazione esperita da altri, determina l’attivazione in noi delle stesse strutture nervose (neuroni specchio) coinvolte nell’esperienza in prima persona. Non la facciamo lunga, facciamo un esempio: guardare Lord Beanche scrive. Comprendiamo e ci gustiamo (o soffriamo) le azioni degli altri, un pò perché le “riviviamo” in noi, anche a livello di attivazione neuronale. Ebbene, l’arte arriva sempre prima – il teatro sull’empatia ci si fonda, oserei dire.

Attraverso lo sguardo di Steve McQueen assistiamo alla Passione di questo Cristo, bello come un dio, e maledettamente bravo. Esploriamo il suo interno, le sue secrezioni, la superficie della sua pelle che documenta sofferenza e tenacia. Sciopero dell’igiene, sciopero della fame, agonia, morte. Arte del corpo o della mente?  

Il punto è… quando riesci a raccontare una storia vera in tutta la sua crudezza e nudità, facendo emergere al contempo un mondo simbolico così vasto, sullo sfondo di una così personale e, diciamolo, elegante visione estetica… allora devi proprio essere quello che chiamano un artista!

E bisogna farsi spettatori totali, per un’opera d’arte totale. Ricominciando, forse, dai sensi?

[Nelle prigioni italiane il suicidio è la prima causa di mortalità tra i detenuti. Anche qui il corpo ci parla e la dice lunga.]

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